Parole che uccidono

Capita spesso che certi fatti di cronaca vengano descritti dalla stampa utilizzando un linguaggio specista. Un linguaggio quindi che si serve di termini e di espressioni discriminatorie nei confronti delle specie animali non umane.
Sciacallaggio, bestialità, trattati come animali, peggio dei cani, come muli. Termini ricorrenti, per fare solo alcuni esempi.
Lo specismo si declina in razzismo quando il suo linguaggio è utilizzato per definire certe azioni compiute da umani ritenuti inferiori, quindi secondo la nostra società antropocentrica influenzati in maniera rilevante dall’istinto animale. Crimini compiuti per istinto, a differenza di quelli dell’uomo occidentale civilizzato, che sarebbero dovuti invece alla perdita momentanea del senno per breve o lungo tempo che sia. Questo è quanto è stato evidenziato dal convegno Immigrazione, paura del crimine e i media: ruoli e responsabilità, tenuto a Padova nel 2012, commentato in maniera approfondita dal filosofo antispecista Rodrigo Codermatz nell’articolo Il linguaggio specista del giornalismo. In particolare, dall’analisi del linguaggio utilizzato per descrivere le aggressioni, si evince che “di solito per il criminale italiano si usano metafore legate all’immagine dell’esplodere (raptus, evento isolato, scoppia la lite, è esploso…) mentre per l’immigrato immagini e metafore che associano l’uomo all’animale (branco, bestia/bestiale, selvaggio, animalesco, ecc.).”


Un esempio riprodotto di frequente nell’ambiente giornalistico è appunto quello di chiamare “branco” il gruppo di uomini che compie un’azione violenta. Così facendo si sostiene sempre la tesi secondo la quale quando le azioni umane sono aberranti siano da definirsi bestiali, poiché ricondurrebbero l’umano allo stato animale che la civilizzazione non avrebbe ancora domato. Inoltre si attribuisce una accezione unicamente negativa alla dimensione istintuale che in quanto animali umani appartiene a tutti noi.
Come individuato da Charles Darwin nel suo saggio L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli altri animali, condividiamo con molte specie animali l’accudimento della prole, la capacità empatica, l’amicizia, l’amore e la solidarietà, eppure utilizziamo queste caratteristiche per definirci umani. Probabilmente un’analisi più corretta ci direbbe che a renderci umani sia invece la distruttività dell’ego, la frustrazione e la noia della sua condizione di alienazione rispetto alla realtà presente, la tendenza a manipolare l’altro, a ridurlo in schiavitù. Quante azioni intenzionalmente atroci sono prettamente umane? Per quanto perduri la volontà di ricondurle alle nostre origini animali, continuano a distinguerci e a definirci in quanto umani. In un’ottica antispecista, tale riflessione ci porta a considerare il ruolo che anche in questi casi ha la coscienza umana rispetto all’istinto animale, l’importanza che avrebbe una rinnovata alleanza con la nostra parte animale e di conseguenza con tutti gli animali non umani.
Perché dunque utilizziamo un linguaggio specista anche nella comunicazione?
Massimo Filippi e Filippo Trasatti si occupano da tempo degli aspetti filosofici e politici dell’oppressione animale. Nell’introduzione alla loro antologia Nell’albergo di Adamo, sottolineano come “il linguaggio che possediamo sia il prodotto della millenaria cultura specista, sulla quale retroagisce rafforzandola. L’illibertà degli animali è socialmente prodotta: il dominio sugli animali è una realtà storica, che si fonda su una serie di inganni, i cui trucchi sono spesso linguistici”.
Con il linguaggio ribadiamo la condizione di schiavitù imposta alle altre specie animali e ad alcune in particolare. Pensiamo per esempio al maiale, a come lo costringiamo a vivere, allo sfruttamento e alle violenze che subisce, al cibo errato con il quale è nutrito, chiamato a fare da specchio ai vizi umani, ridicolizzato nella sua condizione di prigionia. Si utilizza comunemente il termine porco per definire un violentatore, un mangione, chi non si lava, svelando la nostra ignoranza rispetto all’etologia di questa creatura, ai suoi bisogni, alla sensibilità e all’intelligenza che naturalmente le appartengono e all’influenza di caratteristiche individuali che non contraddistinguono solo la nostra specie.
Il linguaggio specista quindi ci serve per discriminare e come si è visto non a caso proprio le sue definizioni rafforzano e ribadiscono le nostre tendenze razziste, quando sono riferite a certi umani quali per esempio gli immigrati.
E ancora, per descrivere brutte condizioni di accoglienza diciamo che sono trattati come animali, peggio delle bestie, come cani, come porci. Come vengono infatti trattati gli animali, soprattutto certi animali, dalla società umana specista?
Quella che viene criticata dall’antispecismo e che deve essere messa in discussione è in sostanza la società del dominio, l’impostazione gerarchica delle relazioni sociali umane. Nel suo libro Spectra – La struttura bi-logica dello specismo, Codermatz afferma che “il linguaggio e la parola sono la più potente e subdola arma di sterminio: parlando noi uccidiamo e lasciamo morire quotidianamente anche a distanza nel tempo e nello spazio; è una distruzione e una devastazione telecomandata e programmata.”
Per questo si rende urgente e indispensabile riflettere sulle parole che pronunciamo, su quelle che scriviamo, in modo da avviare nella comunicazione verbale e scritta un cambiamento evolutivo rispetto al nostro rapporto con le altre specie animali. E qualcuno avrebbe tutta la possibilità di farlo attraverso la sua attività giornalistica, per la quale proprio le parole e il loro uso hanno un ruolo centrale.

Giusi Ferrari

Charles Darwin, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli altri animali, (1872), Boringhieri, Torino 1982

Rodrigo Codermatz, Spectra. La struttura bi-logica dello specismo, Youcanprint 2016

Rodrigo Codermatz, Il linguaggio specista del giornalismo, blog CaVegan 2017

Massimo Filippi e Filippo Trasatti, Nell’albergo di Adamo. Gli animali, la questione animale e la filosofia, Mimesis Edizioni/Eterotopie, Milano 2010

Massimo Filippi e Filippo Trasatti, Crimini in tempo di pace, la questione animale e l’ideologia del dominio, Elèuthera Milano 2013

Una risposta a “Parole che uccidono”

I commenti sono chiusi.